[Nutrirsi, dicevo, e cucinare; il camino, ma più il focolare, per cucinare (Giuliana era un’artista, in questo), nelle severe ma commoventi case di campagna di una volta. Dove la cucina era anche un po’ tinello, nonostante mancassero divani e cose così. Allora andiamo di là, e mettiamoci comodi, su un divano o una poltrona, perché correre e correre, come si fa con i social, e non solo, non è proprio salutare, mi pare.
Proprio per questo ho pensato che sia utile, se non necessario, staccare appena possibile dalla fretta, di tutti i tipi e in tutte le stagioni (comprese quelle con il grande caldo). Perciò chi è interessato … a riposare, a sentir parlare – e parlare a sua volta, se gli va – con calma, in un certo senso, senza nessuna fretta, qui trova un posto dove rilassarsi, a suo piacere. Il tinello, un luogo raccolto per distendersi e lasciar passare il tempo, senza orologio, senza telefono, senza nessun altro disturbo se non quello di ragionamenti alla buona, sulla base di ricordi, piccole storie, qualche ‘inedito’ e qualche ‘postumo’ (di Giuliana, dicevo nel titolo di questi miei scarabocchi) che presumo (ma senza … presunzione) possa interessare a qualcuno… E senza programmi: come viene viene, alla buona.]
Ho spedito ieri a Clare Hunter i libri di Giuliana, perché mi ha particolarmente colpito il suo libro, tradotto nel 2020 da Carlo Prosperi per Bollati Boringhieri, appena un anno dopo la sua edizione inglese, I fili della vita (una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago), che riproduce fedelmente il titolo inglese. È una storia complessa, ricchissima di dati, di persone e vicende di tutte le latitudini, note o anonime e comunque una storia non retorica, che spazia dal cucito al ricamo al patchwork agli stendardi ai tessuti, centrando spesso gli argomenti attorno a storie anche molto tristi, ma esemplari, di donne e situazioni che, appunto, hanno fatto la storia, anche se spesso questa loro storia è oscura, sconosciuta o quasi perfino a chi è, diciamo, del mestiere.
È stata gentile a rispondermi, Clare Hunter, facendomi capire che li gradirà, e mi ha segnalato alcuni libri che le ho chiesto di indicarmi – tra i numerosi da lei citati, pressoché tutti in inglese – che converrebbe fossero tradotti in italiano, prima di altri; e sono quelli di Rozsika Parker, The Subversive Stitch, The Women’s Press, 1984; Marjorie Agosin, Tapestries of Hope, Threads of Love: the Arpillera Movement in Chile, Rowman & Littlefield, 2007; Julia Bryan-Wilson, Fray: Art and Textile Politics, University of Chicago Press, 2017; Leanne Prain, Strange Material: Storytelling through Textiles, Arsenal Pulp Press, 2014; Janet Rae, The Quilts of the British Isles, Deidre McDonald Books, 1996.
Io faccio girare l’informazione, sperando che non solo ci sia chi è interessato anche all’edizione inglese – se, bontà sua, è in grado di leggere e capire questa lingua -; ma addirittura mi illudo che ci sia qualcuno che colga la palla al balzo, avendone la possibilità, e riesca a convincere un editore sensibile a organizzarne l’edizione in italiano.
Libri come questo, proprio perché fortemente coinvolgente e ricco di notizie e storie preziose, hanno il limite potente e inevitabile, indotto dai tantissimi problemi che si dovrebbero affrontare e risolvere in sede di diritti e altro, di non riprodurre almeno parte del materiale di cui parlano e spesso descrivono con proprietà e numerosi dettagli (anche se, in verità, l’autrice segnala sempre, quando possibile, come e dove sono conservati i materiali ricordati): nel caso specifico del quasi-volumone di 380 pagine della Hunter ci sarebbe voluto una sorta di enciclopedia per raccogliere anche solo una foto di ciascuno dei reperti che illustra. Il povero lettore, insomma, resta informato (molto e bene) ma in sede quasi puramente teorica, senza riscontri diretti.
Mi piace ricordare, anche, che questo libro ha un’entrée di tutto rispetto, proprio accattivante: Clare Hunter con garbo e competenza nelle prime 30 pagine descrive il suo primo incontro, commovente, con uno dei più famosi prodotti dell’ingegno di chi ricama: il cosiddetto ‘arazzo di Bayeux’ (di fatto è una serie di pezze di lino cucite uno accanto all’altra e ricamate, non un arazzo, che risale alla fine dell’XI secolo), del quale oltre a descriverne i dati tecnici, dice con forza come di quelle donne che hanno lavorato all’impresa non resti alcuna notizia (questo è una sorta di leit-motiv nella voce dell’autrice lungo tutto il corso del libro: il pressoché totale, universale anonimato di chi si è dedicato al ricamo). La Hunter ricorda anche alcuni dei più famosi tentativi di riprodurre l’arazzo, in seguito, specie oltremanica, se non altro per l’implicazione storica che il Regno Unito ha avuto con la battaglia di Hastings, del 1066 (il grande tema dell’arazzo), una specie di suo ‘atto di nascita’.
21 Luglio 2023