Giuliana era partita da qui, da opere di bellezza potremmo dire estrema come questa della foto (quante volte al Museo di Castelvecchio, nella sua città – Verona – si fermava a ammirare, possiamo dire, configurazioni magiche simili?): un hortus conclusus (il ‘giardino recintato’ medievale: tema ricorrente, all’epoca, e notissimo), una tempera su tavola della prima metà del ’400, di 62 cm x 42, dunque poco più che un quadro da tavolo o da parete di casa (forse del dolcissimo Stefano da Zevio, nostro antico conterraneo), per provare emozioni profonde e incrementare il suo immaginario di figure e colori che l’avrebbero portata sempre più a cercare di ‘dare forma’ a idee, immagini, scarabocchi mentali con i quali giocava e, spesso, faceva giocare chi le si trovava accanto: fosse amica, allieva, motivo per proporre e ragionare su un vestitino, una gonna, e più tardi su un motivo di ricamo, e così via.
Già negli anni di formazione, da studentessa, progettava e realizzava corsetti, gonne, camicette per sé e la mamma (che la aiutava, ma solo quel tanto), a volte riciclando tessuti vecchi della nonna, o comprati in una rivendita ben nota, in città, di scampoli di ogni tipo; e metteva da parte con cura pezzi e ritagli di stoffe antiche, che trovava sulle bancarelle, o che le regalava qualche parente, o conoscente, o signora benestante, lascito di famiglia ‘nobile’ di cui la signora si disfaceva spesso volentieri, sapendo a chi li metteva in mano: con i quali Giuliana provava piccoli addobbi, capi di vestiario (quando possibile) per restaurare qualche bambola un po’ sfatta e anche capi nuovi, impegnativi, o scherzosi, come quelli che spesso confezionava per le feste di carnevale di qualche amico o famigliare (Verona ha una lunga tradizione, con le sfilate dei carri e la gente, spesso, in costume).
Negli anni del Laboratorio artigianale (in centro città), diventato piano piano la sua Scuola di ricamo, partendo dal Reticello ‘classico’, ricamato colore su colore o quasi, la sua grande passione per il ricamo a mano era diventata, un po’ rischiosamente per lei, diceva, anche ‘Reticello in colore’ (dal suo vol. 5, Fior di reticello, in poi), oltre che una ricerca metodica, costante, per uscire dalle ‘finestre’ del lino, ritagliato secondo certe misure in modo che il filo (o i fili) sondassero con i loro piccoli tentacoli, oltre che il vuoto canonico delle finestre, anche il terreno senza vuoti del tessuto adiacente (come mostrano vari lavori del vol. 5, fino a diventare tema dominante nel vol. 9, con l’Herbarium). Giuliana ha fatto una sorta di dichiarazione di intenti, proprio nel vol. 5, che corrisponde in pieno alla sua evoluzione artistica, quando scrive:
“Nella mia ricerca di disegni e materiali con cui interpretare in maniera più attuale i moduli del Reticello, con l’intenzione di ‘andare fuori dagli schemi’, ho realizzato disegni nei quali i moduli escono letteralmente dal reticolo: mi incuriosiva il colore applicato al reticello, e ho voluto provarne l’effetto”; e poco prima aveva anche confidato alle sue amiche lettrici: “Campioni visti su libri o ‘frammenti’ rovinati di ricami dell’800, utili ormai solo come testimonianza, mi hanno incuriosito sia per la forma dei disegni che per il tipo di lavorazione”.
Chissà se la sua predilezione (inconscia? non so, ma non credo) per i ‘fiori’, da un certo punto in poi del suo percorso di artista, che negli ultimi due libri soprattutto è completamente sbocciata, non sia dovuta proprio a questa attrazione incondizionata per arazzi ‘millefiori’, per le divagazioni coloristiche nei dipinti, per varianti e nuances che osservava e ammirava, dovunque le trovasse, a partire dai colori del suo giardino e dei paesaggi circostanti, facendone piccolo-grande tesoro per le sue fantasticherie, ma soprattutto per certe sue trasposizioni in disegni e schemi da realizzare con il ricamo. Senza mettere nel conto l’amore per i fiori vivi e spesso odorosi che si procurava e riconosceva, dal caprifoglio spontaneo di numerose siepi, fino alle rose, che preferiva solo se profumate: così le avrebbe tenute nel suo giardino, negli ultimi anni, a completare il quadro di giunchiglie, glicine, lillà, peonie, clematidi, passiflora, filadelfo che le facevano graditissima compagnia, là fuori, attorno alla casa. Del profumo del caprifoglio si inebriava, quando poteva stargli vicino, per lo più a ricamare… (un piccolo esempio si ritrova nella foto di p. 24 dell’Herbarium, che la mostra assieme a Maryse, sua amica e ospite dalla Francia, mentre imbastiscono il tracciato dell’herbarium a 16 fili di Maryse, nel verde del giardino di casa, proprio in prossimità di un rigoglioso caprifoglio fiorito).
Che avesse amore per i fiori Giuliana lo mostrava in mille modi, fin da ragazza, quando illuminava di colori e profumi la sua cameretta, e mai con fiori acquistati, bensì con quelli che all’epoca si riusciva ancora a raccogliere lungo qualche siepe o fosso o anche nel piccolo giardino della casa paterna. Un ricordo vivissimo che ho riguarda un dialogo sorridente tra mio nonno Bepi (di 82 anni, allora: mitico artigiano del legno e saggio contadino) e Giuliana (a 23 anni: un gioiello), una delle prime volte che si incontrarono (e si piacquero, subito e molto), a casa del nonno e a passeggio nei suoi campi. Giuliana (con un soprabito azzurro che si era confezionato da poco) tiene in mano un mazzolino di fiori di campo, appena raccolti qua e là, gioiosa di avere colori e profumi freschi, vivi, e risponde con una risata a pieni polmoni al nonno – ancora non ‘suo’, ma quasi – che, sornione e complice come sempre, le chiedeva che tipo di fiori avesse raccolto, invitandola a disfarsene, se poteva (e giù a ridere, entrambi). O quando si sedevano lungo un fosso, con il nonno che raccontava le sue storie e lei, da sola o con altri ‘nipoti’, stava ad ascoltarlo, guardandosi negli occhi.
Ho trovato un appunto autografo di Giuliana in preparzione di St. Brieuc, Bretagna, estate 2010. Poco più di un promemoria: è un appunto interrotto, ma in un certo senso completo, nonostante sembri la ripresa, in tempi diversi, di un filamento di idea, di disegno che via via si definisce e forse si completa (succedeva spesso che lei riprendesse, come qui, degli abbozzi già redatti nelle sue carte, e a distanza – di poco o di molto – tentasse di concluderli, di completarli: qui nella riga finale aggiunge “continuare con la lavorazi[one]” e basta: era sufficiente quello che aveva già prodotto: in quel momento aveva fretta, si vede, di chiudere; oppure il resto era già chiaro, nella sua testa, già composto nelle sequenze progressive, per lo stage che doveva fare). A fianco e fuori quadro compare una scritta in verde, di mano mia, quando negli ultimi anni la aiutavo a classificare / archiviare o riordinare le carte, in vista di un uso meno ‘volatile’: a volte bastava proprio il nome, come spesso accade e ha scritto una volta anche Montale (…e il nome agì), per fare riemergere dei ricordi, spesso abbastanza intensi, e rinnovare emozioni, recuperare figure, momenti ancora vivaci, … e fiori, i suoi fiori ‘da tavolino’. Dopo quella esemplare esperienza, St. Brieuc, solo il nome, ha sempre suscitato emozioni magiche, ricordi indelebili, a lei in particolare e a me. Troppo legato, il nome, a quell’esperienza diretta, ma anche a un contesto ‘di Bretagna’, diciamo, che si aveva nel cuore da quasi dieci anni, da quando nel 2001 eravamo stati la prima volta, lassù, per una indimenticabile vacanza estiva (vacanza vacanza, niente ricamo, allora) che io avevo inteso proporre a Giuliana, per miei vecchi ricordi scolastici di orizzonti ignoti, sconfinati e misteriosi (c’era ‘sotto’ Pierre Loti, con Pescatori d’Islanda, tradotto dal francese – in parte – durante il ginnasio), che ci aveva fatto scoprire paesaggi e culture nuove, affascinanti, e ci aveva mostrato – noi immagati e perfino turbati – la costa rosa di Cap Fréhel e ce l’ha scolpita per sempre nel cuore, a tutti e due.
Era un periodo che Giuliana stava appuntando memorie e visioni di Verona medievale, di sicuro per altri spunti e creazioni; può darsi, comunque, che nella preparazione dei motivi da proporre alle brave ricamatrici che avrebbe trovato in Bretagna si ispirasse a disegni e decori che amava in modo particolare, di Verona, e che vedeva di persona nelle case di un quartiere che conosceva bene, vicino a casa (v. foto), quello molto antico di S. Giovanni in Valle, come in un certo senso possono testimoniare appunti contigui a quell’autografo, che trovo in un suo quadernone di lavoro: sono riproduzioni da una pubblicazione che ogni tanto consultava, per avere conferma di quello che vedeva e talvolta annotava, come succedeva con i molti archi – una passione di Giuliana – in marmo rosato della città (il cosiddetto ‘rosso’ Verona), quel delizioso marmo pieno di ammoniti e di fossili di cui Verona è ricca nei monumenti – Arena, Scala della Ragione, molti altari, colonne, protiri e bassorilievi delle belle chiese in città, e tanto altro – e perfino nei marciapiedi del centro storico (non è un caso che a Verona, insieme a Vinitaly, la fiera più rinomata sia quella del Marmo, o, insomma, del nostro ‘rosso’ di marmo accanto al suo analogo etilico). E ritrovare il rosa (o il ‘rosso’) in altre pietre, lassù, sulle coste sventagliate e ventose della Manica, le deve essere apparso come un miracolo, sia la prima che la seconda volta. L’ho vista piangere quella seconda volta, nel 2010, sommessamente, mentre spingeva in avanti il deambulatore con cui si aiutava a camminare – Giuliana non aveva il pianto ‘in tasca’, come si dice talvolta popolarmente -, e al mio sguardo un poco preoccupato e interrogativo ha detto, in un sussurro: credevo di non rivedere più questo posto… ce l’ho nel cuore.
2 Ottobre 2023